26 Febbraio 2021 - In evidenza
Insicuri in montagna
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I limiti alla libertà di movimento sanciti dai DPCM e dalle ordinanze comunali degli ultimi mesi hanno esasperato tendenze già in atto da anni, con particolare riferimento alla frequentazione della montagna e all’alpinismo, tendenze che prescindono dall’emergenza sanitaria e che hanno piuttosto riferimenti culturali legati a doppio filo con l’ossessione per la sicurezza.
La prima e più famosa tragedia che diede luogo a richieste di divieti nei confronti dell’alpinismo fu la salita del Cervino nel 1865 con ben quattro alpinisti caduti in discesa e con Whymper accusato, e poi assolto, delle peggiori nefandezze.
Da Whymper arriviamo, con un balzo di un secolo e mezzo, alle recenti disposizioni dei vari DPCM che, senza nessun nesso con il contenimento della pandemia, hanno proibito tout court la frequentazione della montagna per parecchi mesi, e alle ordinanze comunali del gennaio 2021, che hanno vietato ogni tipo di attività (escursionismo, alpinismo, sci-alpinismo) con pericolo 3 di valanga nei territori dei comuni di riferimento.
Da inizio Ottocento fino agli anni ’60/’70 del secolo scorso, l’alpinismo ha mantenuto una sostanziale connotazione elitaria, caratterizzata da un’accesa passione per la montagna, da una scrupolosa preparazione e da un forte spirito di rispetto e di solidarietà nei confronti del compagno o dei compagni di cordata.
Poche fino a quegli anni sono state, per esempio, le controversie tra guide alpine e clienti giunte nelle aule giudiziarie. Poche anche le cause che vedevano pubblici amministratori giudicati responsabili e obbligati a risarcimenti per danni verificatisi su beni demaniali. La giurisprudenza tendeva a escludere l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. (responsabilità da cose in custodia) in caso di beni facenti parte del demanio pubblico. Tale norma non era applicata quando non era possibile svolgere i doveri di vigilanza posti a carico del custode, come è sempre per definizione su terreno d’avventura.
Il vento ha cominciato a cambiare quando è mutata la tipologia del turismo alpino che, massificandosi, ha portato sulle montagne un nuovo tipo di frequentatore, spesso incapace di valutare i rischi che corre e quindi non in grado di assumersene la responsabilità.
Il sistema giudiziario ha dovuto così misurarsi con nuove dinamiche e nuove richieste: più sicurezza, più tutele, meno auto-responsabilità e minore consapevolezza dei rischi. Come diretta conseguenza, “l’ordinamento ha cercato di trovare forme di tutela più appropriate, aprendosi maggiormente alle pretese dei danneggiati, non volendo – o forse non potendo – più seguire pedissequamente la teoria dell’auto-responsabilità o quella del consenso dell’avente diritto, espressione di una mentalità individualistica che sembra mal conciliarsi con le nuove concezioni sociali” (fonte: Studio giuridico comparato Italia-Svizzera, Fondazione Courmayeur Mont Blanc).
I pubblici amministratori sono stati così sempre più spesso coinvolti in processi, sia civili che penali, e i divieti sono sembrati una ineluttabile conseguenza.
La deresponsabilizzazione dell’individuo e la ricerca del colpevole non sono certo prerogative della montagna e dei suoi frequentatori ma sono ormai endemiche in società complesse e rigidamente organizzate come quelle in cui viviamo.
La tendenza odierna da parte dei consociati è sintetizzabile con la formula: “minima auto-responsabilità, massima richiesta di autotutela”. In un tale contesto culturale l’accettazione volontaria del rischio diventa eresia.
La questione della libertà di accesso alla frequentazione delle montagne offre il pretesto per affrontare un tema di grande rilevanza anche in chiave sociologica, etica, politica e giuridica. Nella società securitaria tutto deve rientrare all’interno di una prevedibilità statistica, riducendo o eliminando la rilevanza soggettiva della responsabilità personale; tecnica e protocolli devono restituire garanzie assolute.
Ogni incidente di percorso deve essere ricondotto a violazione di regole e procedure, nessuno spazio deve essere lasciato all’imponderabile. Il caso fortuito, previsto dal codice penale come causa di esclusione della colpevolezza, viene di fatto espulso dall’ordinamento come corpo estraneo.
La mancanza di autodisciplina e auto-responsabilità è nefasta, al piano come in montagna, perché produce effetti disgreganti rispetto al contesto comunitario in cui ogni individuo è chiamato a interagire.
Negli ambienti naturali però l’incertezza è ineliminabile e la frequentazione non può che essere guidata dalla libertà personale, dalle capacità, dall’intuito, dalla consapevolezza e dalla responsabilità. Il limite non può che essere soggettivo e non certo calcolabile in senso oggettivo e assoluto.
Rifiuto dell’autorità, rispetto della libertà di pensiero e di giudizio, responsabilità e auto-protezione sono peculiarità irrinunciabili della frequentazione della montagna. Invece di reprimerle dovrebbero essere riconosciute come principi sostanziali della convivenza civile.
leggi l’articolo completo di Nicola Pech