31 Marzo 2020 - In evidenza
La comunità della montagna e la reclusione forzata, intervista ad Annibale Salsa
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31 Marzo 2020 - In evidenza
In questi giorni di segregazione forzata, gli appassionati di montagna soffrono. I libri, i video, i social ci raccontano immagini e storie, e ci regalano dei percorsi virtuali. Ma sentire un sentiero sotto ai piedi o stringere un appiglio con le dita ci manca. Come sta cambiando la comunità di chi ama e vive la montagna? E cosa accadrà quando i divieti verranno eliminati o allentati?
Abbiamo chiesto l’opinione di Annibale Salsa, che ha insegnato Antropologia Culturale all’Università di Genova, ed è stato per sei anni Presidente generale del CAI. Oggi continua a studiare la gente, il territorio e il paesaggio per la Regione Valle d’Aosta e per vari enti culturali del Trentino.
In Italia, come altrove, la comunità degli appassionati di montagna conta centinaia di migliaia di persone. Può essere osservata con gli strumenti dell’antropologia?
“Perché no? Di solito è un lavoro che si applica a gruppi sociali, o a comunità che vivono in determinate aree geografiche. Ma gli appassionati di montagna sono accomunati da valori, da intenti, da riti”.
Per sentirsi davvero una comunità ci si deve incontrare, e questo può accadere su un sentiero, alla base di una falesia, in una sezione del CAI. Se si resta a distanza la comunità si mantiene o si sfalda?
“In questi giorni di segregazione forzata c’è sicuramente uno spaesamento, una difficoltà maggiore. Ma la comunità di chi ama e frequenta la montagna ha una forza superiore a molte altre. E’ una comunità di destino, che si riconosce in un fine. Questo è un concetto molto forte”.
In che senso?
“Significa che il legame all’interno di questa comunità è molto forte. Nell’antichità la montagna era temuta, era il luogo del male. Verso l’anno Mille ha iniziato ad attrarre. E’ diventata un rifugio, il luogo della catarsi, il luogo della fede. Sì, per certi versi l’amore per la montagna è simile a una fede”.
Alla fine dell’Ottocento i soci del CAI e degli altri Club alpini erano pochissimi, ma quando si incontravano si consideravano fratelli. Oggi i social e il web, se lo vogliamo, ci riempiono di contenuti di montagna. Quale dei due è il legame più forte?
“Certamente quello del passato. Oggi siamo bombardati di informazioni, ma abbiamo perso il senso della condizione umana. La crisi di questi giorni lo dimostra”.
In che senso, professor Salsa?
“Il virus, e la segregazione che ci impone, dimostrano che la troppa tecnologia ci ha illuso. Vedo tornare a galla paure degne dell’uomo preistorico”.
E queste paure in un passato più recente non esistevano?
“Certamente no, e i montanari del passato ne sono l’esempio migliore. Erano multifunzionali, sapevano arare la terra e mungere il bestiame, costruire un muro a secco e tagliare un albero. In caso di crisi erano in grado di sopravvivere. Noi no, stiamo perfino chiudendo i negozi sotto casa, sostituiti dagli ipermercati”.
I montanari delle Alpi, dalla Francia alla Slovenia, passando per l’Italia, la Svizzera e l’Austria, si sono sempre sentiti fratelli. Gli egoismi degli Stati in questi giorni, e le difficoltà dell’Unione Europea, non rischiano di rovinare questo rapporto?
“Il federalismo europeo è nato sulle Alpi, e l’esempio migliore è la Svizzera, con i suoi Cantoni che sono dei piccoli Stati, parlano lingue diverse ma si riconoscono in un progetto comune. Lo stesso era vero per gli Escartons del Briançonnais, e per il Tirolo antico”.
Sì, ma la Svizzera è fuori dall’Unione…
“Certo, e l’Unione Europea di oggi non ha nulla a che fare con il sogno dei suoi fondatori. De Gasperi, Schuman, Adenauer erano dei federalisti, volevano costruire una casa comune. Invece siamo diventato una somma di Stati nazionali, come voleva De Gaulle”.
E allora? Cosa accadrà alla fine dell’emergenza?
“Siamo a un bivio, e se ne stanno rendendo conto tutti. O l’Unione Europea si rifonda, e allora si può rilanciare. Oppure è destinata a spaccarsi, e a venire smantellata. Non abbiamo bisogno di veti, ma di Ministri in comune”.
Quando potremo tornare a spostarci, e non azzardo previsioni sui tempi, la paura degli assembramenti ci sarà ancora, e le frontiere resteranno probabilmente chiuse ancora un po’. Potrebbe essere una grande occasione per l’Appennino e per le zone meno famose delle Alpi.
“E’ vero, per qualche tempo anche il trasporto aereo avrà delle riduzioni, e la diffidenza per i luoghi affollati resterà a lungo. Penso alle vie delle città d’arte, a Piazza San Marco, ma anche alle code agli impianti di risalita e alle cabinovie affollate”.
E allora? Si riscopriranno le zone più tranquille?
“Secondo me sì. Le località turistiche alla moda, come ha teorizzato l’antropologo francese Marc Augé, sono dei “non luoghi”, uguali gli uni agli altri anche se cambia lo sfondo. Per definire un “luogo”, sempre secondo Augé, ci vogliono uno spazio geografico, un sistema di relazioni e una storia. E questo sulle Alpi “minori” e sull’Appennino c’è”.
Sta dicendo che invece dei luoghi esotici, e magari delle montagne lontane, le persone andranno a scoprire le valli e i borghi più vicini?
“Penso e spero di sì. Una volta l’esotismo, che è una delle motivazioni più importanti del viaggio, era dato dalla lontananza. Ora molti luoghi lontani non sono più esotici”.
Ma esiste ancora qualcosa di esotico?
“Certamente, e nel mio lavoro ho scritto spesso dell’esotismo di prossimità. Per chi vive nelle nostre città, certe valli dell’Appennino e delle Alpi sono veramente esotiche. Penso che questa fase, quando potremo finalmente uscire di casa, sia un’occasione formidabile per scoprire dei luoghi autentici”.
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